L'ictus cerebrale è la causa più frequente di disabilità in persone adulte e una delle più frequenti cause di morte. Due terzi dei casi si verificano sopra i 65 anni, ma possono essere colpite anche persone giovani. I sintomi sono dovuti alla perdita transitoria o permanente di determinate funzioni cerebrali e dipendono dalla localizzazione del danneggiamento strutturale all'interno del sistema nervoso centrale, causato da una riduzione del flusso sanguigno (ischemia, infarto, 90% dei casi) o dalla rottura di un vaso sanguigno (emorragia,10% dei casi). Il termine TIA ('transient ischemic attack') denominava nella vecchia definizione un'ischemia transitoria i cui sintomi si risolvono entro 24 ore, oggi questa formale distinzione non viene più ritenuta significativa e anche le TIA, se confermate tali, sono considerate ischemie. Le TIA spesso annunciano la prossima manifestazione di un'ischemia più seria con sintomi non reversibili.
Poiché l'evento acuto in genere si manifesta solo nella parte destra o nella parte sinistra del cervello, anche i sintomi sono spesso lateralizzati e includono la perdita della sensibilità in un lato del corpo o del viso, la paralisi di un lato del corpo o del viso, la perdita della vista nel campo visivo sinistro o destro, la visione sdoppiata, difficoltà del linguaggio o della articolazione delle parole, vertigini, vomito e perdita della coscienza. Si possono manifestare varie combinazioni di questi sintomi o magari uno soltanto; se l'ischemia avviene in un territorio cerebrale meno sensibile può anche non causare sintomi e passare inosservata. In molti casi l'ictus causa un danneggiamento permanente del tessuto nervoso con la conseguente permanenza dei sintomi, che possono comunque migliorare durante la terapia riabilitativa in quanto altre regioni cerebrali possono attivarsi per sostituire parzialmente la funzionalità persa. In altri casi, o nel caso siano possibili interventi farmacologici precoci, il flusso sanguigno si ristabilisce entro poco tempo, permettendo la sopravvivenza del sensibile e non rigenerabile tessuto nervoso. Una caratteristica importante di tutti i sintomi da ictus acuto è la loro manifestazione improvvisa.
L'ictus cerebrale è quasi sempre conseguenza di una patologia cronica del sistema cardio-circolatorio come l'ipertensione arteriosa, arteriosclerosi o patologia cardiaca. Mentre l'ipertensione stessa può causare un'emorragia cerebrale, nella maggior parte dei casi promuove l'arteriosclerosi che a sua volta causa una lenta ostruzione dei vasi sanguigni che alimentano il cervello (macroangiopatia dell'arteria carotidea, vertebrale, basilare, cerebrale anteriore, media e posteriore; microangiopatia di piccole arteriole intracerebrali). L'ictus ischemico avviene infine per la chiusura spontanea di un vaso arteriosclerotico oppure per coaguli (trombi) che si formano nel cuore o sulle pareti arteriosclerotiche e che si distaccano, bloccando l'apertura del vaso (tromboembolia).
Le terapie acute dell'ictus (farmaci antiaggreganti come l'aspirina, farmaci trombolitici come rTPA, fibrinolisi) hanno visto progressi significativi durante gli ultimi anni; aiutano comunque un modesto numero di pazienti, in quanto in particolare la fibrinolisi si applica soltanto in unità specializzate ('stroke units'), presenti solo in una piccola parte degli ospedali italiani. La fibrinolisi può essere attuata solo nelle prime ore dopo l'evento e dopo che sia stata esclusa un'emorragia cerebrale tramite TAC o risonanza magnetica. La terapia con acido acetilsalicilico (al dosaggio di 160-300 mg) rappresenta perciò l'unica terapia provata e raccomandata a tutti i pazienti in fase acuta se non vengono sottoposti a fibrinolisi. Di scarsa efficacia sono invece le terapie con eparina, con eccezione delle poche situazioni in cui sono indicate (dissecazione di un arteria estracraniale o stenosi carotidea di alto grado in attesa dell'intervento chirurgico).
Mentre le possibilità di intervento acuto una volta che si è manifestato l'ictus sono limitate, le possibilità di prevenzione (oppure la prevenzione di un secondo ictus una volta che sia avvenuto il primo) sono notevoli e devono essere sfruttate. Gli obiettivi principali sono la prevenzione e il controllo dell'arteriosclerosi, per cui valgono gli stessi principi utili alla prevenzione dell'infarto cardiaco:
eliminazione del fumo;
controllo dell'ipertensione con adeguamento dei farmaci in base a una registrazione della pressione di 24 ore;
diagnosi e controllo stretto di un eventuale diabete;
controllo della obesità e della lipidemia tramite esercizio fisico, dieta o farmacoterapia in base a un'analisi dettagliata delle frazioni lipidiche nel sangue;
diagnosi di eventuali occlusioni dei grandi vasi del collo e della testa tramite ecodoppler extra- e transcraniale ed eventualmente tramite angiografia;
diagnosi di aritmie cardiache tramite elettrocardiogramma di 24 ore.
La prevenzione dell'ictus cerebrale viene sostenuta da farmaci antiaggreganti (inibiscono l'aggregazione delle piastrine del sangue che formano i coaguli: acido acetilsalicilico, clopidogrel, dipiridamolo, ticlopidina) e farmaci anticoagulanti (inibiscono determinati fattori del sistema che attiva la coagulazione del sangue: warfarina). Inibendo la coagulazione, questi farmaci possono causare emorragie spontanee, per cui il loro uso va limitato alla presenza documentata di fattori di rischio cardiovascolare o alla presenza di patologia arteriosclerotica o cardiaca. La ricerca clinica recente fornisce criteri sempre più precisi per l'impiego di questi farmaci; rimangono comunque molte situazioni individuali per le quali non sono disponibili dati sufficienti. Per questo, il giudizio e la guida del medico esperto rimangono essenziali nella prevenzione dell'ictus cerebrale.
È anche compito del medico rilevare tramite una serie di domande specifiche se nel passato si siano verificati sintomi premonitori che indicano un alto rischio di ictus cerebrale e spesso danno un'ultima occasione per iniziare un programma di diagnosi e prevenzione. Questi sintomi sono simili ai sintomi di ictus sopra descritto, ma regrediscono completamente entro pochi minuti o poche ore. Sono causati da un disturbo transitorio del flusso sanguigno (TIA: transistory ischemic attacs, ischemia transitoria) che si ristabilisce in poco tempo. È essenziale riconoscere le TIA per sfruttare al massimo le possibilità di prevenzione ed evitare la manifestazione di una ischemia cerebrale più seria.
Quando gli esami diagnostici rilevano la presenza di un restringimento (stenosi) arteriosclerotico dei vasi del collo, è possibile un intervento di chirurgia vascolare (endarteriectomia o trombendarteriectomia, TEA, dell'arteria carotidea) per ripristinare il normale flusso sanguigno e asportare le placche arteriosclerotiche. Poiché l'intervento chirurgico stesso può avere complicazioni o può causare a sua volta un ictus cerebrale, è necessario valutare se il possibile beneficio è maggiore dei rischi che l'operazione comporta. Per definire meglio i rischi e i benefici, una serie di studi internazionali ha dimostrato che la terapia chirurgica dell'arteria carotidea è indicata quando le stenosi chiudono più del 70% del vaso e quando il paziente ha avuto sintomi recenti (ictus o TIA) che sono anatomicamente collegabili alla stenosi (stenosi sintomatiche). È inoltre necessario che l'intervento sia eseguito in centri specializzati con un basso rischio di complicazioni. Un grande studio recente indica un beneficio anche per l'intervento chirurgico su stenosi non sintomatiche con la condizione che debba essere eseguito in centri che operano con un basso tasso di complicazioni, v. anche questo commento su neurologia.it. Se queste condizioni non sono garantite, il rischio dell'operazione sembra maggiore di quello che hanno pazienti che si limitano a una prevenzione farmacologica. Eccezioni a queste regole sono stenosi quasi totali con la minaccia di chiusura imminente e stenosi progressive nel tempo, quando altri vasi del collo si sono già chiusi precedentemente. Quando il processo arteriosclerotico ha colpito vasi multipli, la situazione individuale di flusso sanguigno deve essere definita da un esame angiografico e la indicazione e il tipo di intervento sono da decidere da un team di neurologi e chirurgi vascolari esperto, in quanto per questi casi non esistono dati sufficienti per stabilire un progetto d'intervento secondo criteri fissi. Gli interventi chirurgici hanno come obiettivo l'asportazione del processo arteriosclerotico che restringe il vaso e non sono più possibili a occlusione avvenuta. Anche quest'ultima situazione sottolinea l'importanza delle misure di prevenzione.
La chirurgica tradizionale sulla carotide oggi viene affiancata dall'intervento di angioplastica (PTA - angioplastica transluminale percutanea) in cui un catetere inserito a livello dell'inguine viene portato fino all'arteria carotide, un palloncino gonfiabile dilata la stenosi e l'inserimento di uno 'Stent' assicura che la regione dilatata rimanga pervia. Da quando si utilizzano piccoli filtri contro eventuali embolie cerebrali, il tasso di complicanze della PTA sulla carotide sembra ridotto (mancano ancora dati certi sull'utilità effettiva dei filtri) e l'angioplastica, essendo un intervento non chirurgico e meno invasivo, trova sempre maggiore applicazione. Essendo la chirurgia ancora standard e più convalidata, la PTA oggi ancora è più ideonea per stenosi di difficile accesso chirurgico o per pazienti con un elevato rischio di complicanze perioperatorie. Sono in corso una serie di studi internazionali che comparano efficacia e sicurezza di chirurgia e angioplastica.
In caso di ictus cerebrale manifesto è importante una qualificata terapia ospedaliera per garantire le necessarie terapie di base e per avviare un programma diagnostico e una precoce terapia riabilitativa che deve mobilitare il paziente e allenare specificamente le funzioni disturbate (fisioterapia, logopedia) per ottenere il loro massimo recupero e insegnare al paziente nuove tecniche di movimento che tengono conto delle paralisi e usano al meglio gli arti paralizzati. La fisioterapia è inoltre diretta a prevenire l'irrigidimento permanente delle articolazioni, che può risultare dall'irrigidimento muscolare (spasticità) che spesso si sviluppa dopo paralisi estese. Mentre un certo grado di spasticità può essere utile per l'impiego passivo di un arto e per permettere al paziente di mantenere una posizione verticale o di camminare, una spasticità accentuata può aumentare la disabilità o può essere dolorosa. In questo caso, va trattata con farmaci spasmolitici (baclofene, clonazepam, tizanidina, dantrolene). Un ulteriore aspetto importante è che dopo un ictus cerebrale si può instaurare una maggiore labilità psichica con alterazioni del comportamento o tendenze depressive che devono essere trattate a seconda della situazione individuale, impiegando strategie di terapia psicologica supportiva e farmacologica.
La scoperta di farmaci che in modelli sperimentali di ictus cerebrale possono ridurre il danno al tessuto nervoso (farmaci neuroprotettivi) ha fatto sperare che la somministrazione precoce di questi farmaci in pazienti colpiti da ictus possa notevolmente ridurre il grado di disabilità permanente. Finora, però, nessuno di questi farmaci è stato efficace in una serie di studi clinici, che vengono comunque portati avanti e potrebbero avere un impatto drastico nel futuro della terapia acuta dell'ictus cerebrale.
(DAL WEB)